6 Maggio 2023

Figli arrabbiati. Le difficoltà del ruolo genitoriale

Scritto da Michela D'Argenzio
Nelle ultime settimane ho ricevuto diverse richieste d’aiuto da parte di genitori preoccupati; arrivano in studio mamme e papà allarmati, tutti con una simile richiesta, ciascuno con stati d’animo differenti:…

Nelle ultime settimane ho ricevuto diverse richieste d’aiuto da parte di genitori preoccupati; arrivano in studio mamme e papà allarmati, tutti con una simile richiesta, ciascuno con stati d’animo differenti: “Mio figlio è perennemente arrabbiato” mi dicono, “non sa controllare la rabbia” ribadiscono, “mia figlia fa delle scenate assurde”, “ha questi scoppi d’ira improvvisi e nessuno riesce a calmarlo”, “non si controlla, è implacabile: quando si arrabbia, spacca tutto”.

Mamme e papà spaventati, arrabbiati, confusi, a volte non concordi nella decisione di rivolgersi ad uno psicologo, altre volte spinti dalle segnalazioni di insegnanti in difficoltà, altre volte ancora assaliti dai sensi di colpa che li spingono ad interrogarsi sul loro ruolo genitoriale.

Queste mamme e questi papà arrivano da me in cerca di spiegazioni, di soluzioni, di risposte o semplicemente in cerca di ascolto, in cerca di qualcuno che possa sostenerli in quello che uno dei principali obiettivi dell’essere genitore: proteggere e fornire cura al proprio figlio.

E allora come mai questi ragazzi sono così arrabbiati? La prima risposta che mi sento dire dal genitore stesso è che sono adolescenti, che è una fase transitoria e che passerà. Eppure, mentre me lo dicono, non sembrano crederci realmente, non sembrano molto convinti, forse c’è qualcosa oltre quella rabbia; forse c’è qualcos’altro sotto, prima o dopo quella rabbia.

E allora partiamo dall’inizio: che cos’è la rabbia?

Foto di Mick Haupt su Unsplash

La rabbia è una delle emozioni fondamentali ed è trasversale a tutte le età, culture ed etnie: ciò significa che bambini, adulti e anziani di tutto il mondo si arrabbiano.

La rabbia è uno stato emotivo che è suscitato dalla percezione di una minaccia può persistere anche quando la minaccia è passata. Si associa a pensieri di valutazione che sottolineano le intenzioni negative dell’altro e che motivano una risposta di antagonismo: una persona arrabbiata tende a rispondere cercando di contrastare o attaccare la fonte della minaccia percepita.

Frequentemente il termine rabbia viene associato ad aggressività e violenza, acquisendo una valenza negativa e perdendo l’utilità e lo scopo evolutivo di tale emozione: mettere confini. Una persona che non esprime la sua rabbia, la nega o non la percepisce tenderà a non mettere in atto risposte di difesa da comportamenti di ingiustizia e di danno messi in atto nei suoi confronti e avrà difficoltà ad esprimere i propri bisogni, idee e necessità.

Arrabbiarsi quindi è utile alla nostra sopravvivenza.

La rabbia, come ogni altra emozione, è connotata dall’attivazione fisiologica e da espressioni mimiche e posturali.

Così, una persona di fronte alla percezione di minaccia sperimenterà un aumento della tensione muscolare, della temperatura corporea, della pressione, della frequenza cardiaca, mostrerà un volto arrossato e teso, con sopracciglia e fronte aggrottati e pugni serrati.

Insomma, è molto facile riconoscere una persona arrabbiata anche solo osservandola.

Tornando ai nostri adolescenti arrabbiati, dunque, sembrerebbe che essi si arrabbino in risposta ad uno stimolo interno o esterno che viene valutato come ingiusto e dannoso e che ci sia una difficoltà nel regolare l’emozione legata a questo senso di minaccia; ciò li spinge a mettere in atto comportamenti aggressivi di tipo fisico o verbale nei confronti di oggetti o persone, spesso perdendo il controllo.

Alcune ricerche nell’ambito hanno riscontrato che ragazzi con disregolazione della rabbia hanno una modalità distorta di elaborazione dell’informazione sociale, cioè tendono a valutare i segnali da parte delle altre persone in maniera ostile.

In altre parole, questi ragazzi interpretano le azioni degli altri come guidate da intenzioni malevole e di conseguenza sono portati a reagire in maniera aggressiva. Mostrano, inoltre, difficoltà nel risolvere i problemi interpersonali, sono meno efficaci nel trovare nuove soluzioni alternative e considerano l’aggressività come una modalità utile a modulare le emozioni e a gestire i conflitti.

Ci troviamo quindi di fronte ad una situazione di questo tipo: l’adolescente si arrabbia perché percepisce una minaccia, interpreta le azioni e le parole dell’altro come ostili, ha un’attivazione delle reazioni corporee ed esprime la sua rabbia rompendo oggetti o insultando persone.

Che fare dunque?

Il lavoro terapeutico

Se un ragazzo giunge al mio studio “portato” dai genitori non è detto che egli riconosca di avere delle difficoltà e che sia favorevole a lavorarci in psicoterapia: questa è l’idea naif che abbiamo dell’adolescente. È “incazzato”, come dice la madre che lo porta da noi, si percepisce incompreso e non vuole essere aiutato.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, in un modo o nell’altro, questi ragazzi sono consapevoli di quanto le proprie espressioni di rabbia esplosiva influenzino le relazioni con i compagni e sono disponibili a farsi aiutare.

Spesso vogliono un aiuto, in quanto la difficoltà dei genitori a capire perché il figlio si arrabbia, è condivisa dal ragazzo stesso che, confuso e spaventato, si sente trasportato da questi impulsi emotivi provando, successivamente, colpa e malessere.

Dunque, nel ragazzo si verifica un susseguirsi di sensazioni corporee, interpretazioni, azioni e reazioni emotive che va esaminata nel dettaglio.

La prima cosa da fare è aiutarlo ad osservare tale sequenza, soffermandosi sui dettagli. Egli stesso imparerà a porsi domande come: cosa stava succedendo prima che mi arrabbiassi? A che cosa stavo pensando? Stavo ricordando qualcosa? Mamma, papà, il professore, un compagno hanno detto qualcosa che ha stimolato in me una determinata sensazione? Come mi sentivo prima che la rabbia montasse? E cosa è successo alla fine? Come ho fatto a calmarmi? Che emozione ho provato dopo l’arrabbiatura?

Nella stanza di terapia si impara a decostruire il momento della rabbia, a smontarlo in tanti piccoli pezzettini, a scomporlo in tanti frames successivi, per riuscire poi a riassemblare il tutto, trovandone un nuovo significato.

Una volta affinata tale capacità, si inizia a lavorare sull’interpretazione delle intenzioni altrui, sulla percezione della minaccia (reale o immaginaria) e sulle modalità alternative di problem solving.

Ma mamma e papà in tutto ciò che c’entrano?

Come già detto, mamma e papà assistono alle reazioni di rabbia dei propri figli e hanno difficoltà a gestirle, tanto da rivolgersi ad uno psicologo. Questa figura non è un giudice severo che attribuisce colpe e designa vittime e carnefici, bensì riveste un ruolo supportivo. Infatti, a partire dalla conoscenza che i genitori hanno dei propri figli, lo psicologo guida tutti gli attori della famiglia nell’esplorazione delle loro relazioni che sono dense di significati. L’obiettivo ultimo di questo processo sarà la graduale trasformazione del comportamento e delle reazioni emotive di ciascuno.

L’attenzione non è dunque solo alla rabbia dei figli, ma anche alla paura, lo sconforto e la frustrazione dei genitori, che inevitabilmente entrano in gioco in un complesso sistema di aspettative, richieste e comunicazioni familiari.

Il compito dello psicologo è dunque quello di favorire la presa di coscienza di emozioni, pensieri e reazioni dei genitori e di approfondire l’osservazione delle dinamiche che precedono e seguono la “crisi di rabbia” del figlio.

Genitori e figli dunque impareranno a conoscersi meglio e a trovare nuove modalità di entrare in relazione gli uni con gli altri.

Per fare ciò, bisognerà soffermarsi sull’idea che la rabbia non è un’emozione sgradevole da ripudiare, nascondere o sconfiggere.

La rabbia ha un valore adattivo ed è presente già nella prima infanzia, quando il bambino inizia a capire che la presenza di un ostacolo può impedirgli il raggiungimento di un obiettivo. Viene espressa come segnale di richiesta di eliminazione di un elemento irritativo, come la fame e il dolore. Successivamente l’espressione di rabbia si evolve e diventa un tentativo specifico di ristabilire la condizione desiderata di gratificazione.

La rabbia, inoltre, si manifesta nel corso dello sviluppo come risposta alla minaccia di rottura di un legame di attaccamento con il genitore, dunque come protesta per una separazione. Questo tipo di collera, detta “funzionale”, ha lo scopo di impedire l’allontanamento e favorire il riavvicinamento all’adulto di riferimento.

Attraverso la crescita cognitiva e sociale, il significato psicologico della rabbia viene arricchito e plasmato dall’esperienza interpersonale e dalle nozioni culturali condivise, diventando un aspetto centrale della gestione delle relazioni e dei conflitti interpersonali.

L’emozione della rabbia, al pari delle altre emozioni, diventa un segnale che regola le interazioni sociali e trasmette intenzioni e significati differenti.

L’espressione della rabbia diviene dunque essenziale per il raggiungimento di obiettivi, per l’instaurazione del senso di controllo personale, per la difesa dell’integrità personale e per l’espressione di punti di vista differenti rispetto a quelli degli altri. La possibilità di ricorrere alla rabbia è vista come un passo fondamentale per affermare la propria autonomia e controbilanciare i sentimenti di vergogna e vulnerabilità.

Alla luce di tali funzioni, diventa essenziale il lavoro di osservazione e comprensione dei significati della rabbia da parte sia del ragazzo che dei genitori, poiché non esiste la rabbia “improvvisa” e nemmeno quella “immotivata”; esiste solo quella non conosciuta.

Comprendere quello che accade nel nostro mondo emotivo è il primo passo per riuscire a gestire meglio un’emozione fondamentale e utile come la rabbia.

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